31 dicembre 2012

I nostri Lari

L'ambientazione del presepe popolare napoletano è fissata poeticamente in una atemporalità non astratta ma concreta. Un paesaggio ai limiti del centro abitato, in una zona dove l'intensa urbanizzazione, scale case taverne pozzi il mercato e i relativi mestieri, si mescola con i segni della campagna, la stalla gli attrezzi dei campi e gli animali domestici, e con i segni della natura non ancora intaccata dalla mano dall'uomo, le cascate i monti e gli alberi dai rami ritorti. In maniera apparentemente incongrua, in un eterno presente suggerito dalla fissità dell'ora e delle pose, sul presepe è rappresentato il legame tra la vita interiore nostra e di chi ci ha precdeuto, e personaggi contemporanei coesistono con figurine abbigliate all'antica, vestite come personaggi del '700 e dell'800, in atto di attendere ai loro antichi mestieri. Proprio questo insistere su antichi abiti, e su lavori che non esistono più, sul tempo che non scorre, mescolando ciò che è antico a ciò che è più recente, e che merita di essere ricordato, fa pensare al presepe come a un ritratto di famiglia, a un albero genealogico.
Nell'antica Roma, gli spiriti benevolenti degli antenati erano venerati come Lari, ed erano rappresentati sotto forma di statuine di creta, poste in casa all'interno di un'edicola detta larario. Da lì, i Lari proteggevano la famiglia nei passaggi più delicati della vita, e ad essi si facevano semplici sacrifici in occasione di matrimoni, nascite, partenze. Al termine dei Saturnalia ci si scambiava ogni anno delle figurine di terracotta, dette Sigillaria, rappresentanti proprio i Lari. E questa festa cadeva alla fine di dicembre, vicino al solstizio d'inverno, proprio nello stesso periodo in cui noi prepariamo il presepe.
I personaggi del presepe sono dunque i nostri antenati, i nostri poetici Lari. Non tanto quelli della nostra famiglia stretta, ma i Lari della nostra comunità, che ci accompagnano nel momento di passaggio che segna il punto più basso nella traiettoria annuale del sole, e il periodo più buio e carico di attese dell'anno.


28 dicembre 2012

L'eleganza del riccio


Mio fratello abita in un vecchio palazzo vicino alla stazione dei treni. Antica zona operaia, e di piccoli e numerosi negozi di quartiere. Ad un'estremità dell'area c'è la grande officina che venne difesa armi in pugno dai lavoratori, quando i nazisti tentarono di farla saltare in aria. Dall'altro lato, una piazzetta per sesso a venti euro alla botta, e poi il corso con il passeggio e i negozi d'abbigliamento della povera gente. Solo di recente la modernità si è insinuata nella strada di mio fratello usando come avamposto un piccolo supermercato, che ora occupa i locali di quello che fu un cinema, e un ristorante cinese. Un tempo, d'inverno, lungo la strada vendevano le caldarroste: mio padre, insieme a mio zio, se ne riempiva le tasche, e poi nelle tasche ci infilava le mani, perchè entrambi non avevano abbastanza soldi per comprare i guanti. Mentre fuori dei bassi le vecchine, per arrotondare, mettevano dei pentoloni nei quali cuocevano continuamente spaghetti che servivano senza condimento agli operai durante lo spacco, solo acqua sale e pasta.
Nell'androne del palazzo di mio fratello, mai ridipinto, cupo e fuligginoso, c'è la rampa che sale al pianerottolo di riposo, e poi quella che monta al piano superiore. Sotto quest'ultima, la portineria: una specie di sgabuzzino, con la porta a vetri nella cornice di legno, vecchie tendine e uno scuro per darsi un pò d'intimità. Dalla porta a vetri si intuisce, anche se a malapena, che la portineria in realtà è un cucinino, con i piccoli pensili in formica, il tavolo che occupa quasi tutto l'ambiente, il fornello alimentato da una bombola a gas, il calendario gentilmente offerto dal ristorante cinese appeso alla parete, la piattaia a vista sul lavello, il soffitto inclinato che segue il profilo della rampa. E dietro il vetro, la portinaia, piccola e grassa, dai grigi spessi capelli scorbuticamente piegati nelle più diverse direzioni.
Tutte le volte che entro la ritrovo eroicamente fissata nella medesima posizione: seduta al tavolo, ha fatto una stesa con una dozzina di carte napoletane, ingobbate e appesantite dal continuo sfregare con le dita, ed esegue un solitario sotto la luce giallognola del suo cucinino-portineria. Sono arrivato a chiedermi se sia io a rivivere sempre la stessa scena, come un film di un pò di tempo fa, oppure se lei passi davvero tutto il suo tempo così, e magari la stessa partita sia in corso da anni. Il portone ha la porticina di servizio, che è quella usata ordinariamente, per cui nell'entrare ci si deve un pò piegare e abbassare la testa, e mentre voi passate attraverso il piccolo vano già percepite in qualche modo che dietro la porta a vetri la sua attenzione si è destata, e potete quasi immaginare il grugnito che deve avere eseguito sollevando la testa per guardarvi. Ma, forse, sarà l'inchino che ogni volta che attraverso la porticina sono costretto a farle a predisporla bene nei miei confronti, sta di fatto che quando le indico, non le dico, che sto salendo da mio fratello, la sua espressione severa si ammorbidisce, e lei si limita ad accennare a malapena un sorriso che ha una sua ruvida dolcezza, muovendo impercettibilmente la testa per farmi sapere che ha capito, e che posso passare. E io mi sento un pò come in quel libro che parlava di un riccio.

23 dicembre 2012

Presepe popolare napoletano (il mio)








Il teschio sulla colonnina


Lo guardo sempre di sfuggita, ogni volta che passo e c'è quella porta aperta. Ma è solo un attimo: devo camminare oltre e non fermarmi, perchè si tratta pur sempre di una casa, e tu ci puoi giusto buttare uno sguardo distratto, non puoi piantarti lì a osservare. Dalla porta aperta del basso si intravede sullo sfondo uno di quei mobili soggiorno anni '50 con specchiera, di quelli orrendi, dai quali qualche vecchia zia provvidamente faceva sempre saltare fuori una bottiglia di Strega, le caramelle, e i bicchieri del servizio buono. E poi di fianco al mobile i fornelli di una compatta cucina moderna. E le sedie da cucina e l'incerata sul tavolo. Senza ordine, la casa me la studio per pezzi, ogni volta che l'occhio di sfuggita si posa su un nuovo dettaglio. Il gabinetto con la porta a soffietto accanto ai fornelli della cucina. Il televisore appeso a un braccio ancorato nel muro. Un lampadario finto antico. L'unico abitante: un uomo tarchiato e con gli occhiali, con i baffi come Hulk Hogan, in canottiera e bandana tutto l'anno. Un cane che esce ed entra dal basso. Una pianta nel vicolo, immediatamente fuori la porta.
E poi questa testa, proprio sull'ingresso. Una colonnetta di quelle che le nonne tenevano in un angolo della stanza da letto, con sopra la Madonna di Lourdes. E al posto della madonnina, un teschio. Di pietra, a grandezza naturale, rivolto verso il vicolo, che osserva fuori con le sue orbite vuote. E io non so se protegga la casa, o sia utilizzato per trarne auspici, magari con strani diesgni tracciati intorno. A volte penso che, guardando fuori, mi interroghi mentre passo.

04 dicembre 2012

Storiella con morale (nascosta)

Mezzanotte. All'improvviso, durante il pranzo a corte.

(Inseguendola per le scale del palazzo) - Cenerentola... Cenerentola! Cenerèèèè... la scarpetta!
(Saluta fuggendo) - Principe, che v'aggia dì.... fatevela alla salute mia!

02 dicembre 2012

Un tuffatore

Fu ritrovata il 3 giugno del 1968, in una località detta Tempa del Prete, nei pressi di Paestum. Tempa, parola locale che non significa solo mezza collina, ma che richiama un terreno sufficientemente articolato ed impervio da farti dire che lì è terminata ogni estrema propaggine delle piccole realtà urbane del Cilento di lingua greca, ed inizia qualcosa d'altro. Un luogo di confine. Dov'è giusto che siano i morti: non così vicini, da impicciarsi degli affari dei vivi, non così lontani da non potere essere rcordati, onorati, e magari potere partecipare almeno con l'incoraggiamento e il ricordo delle loro imprese alla difesa dai nemici esterni. Tempe piene di sole, torride d'estate, immerse nel canto delle cicale che impazzite si sfiniscono, e tenebrose d'inverno, con fiumi d'acqua che le percorrono e le scavano in profondi solchi. Terre percorse da etruschi, greci, lucani. Contese. Terre di mezzo.


La tomba del tuffatore è una tomba a cassa, che sulle quattro pareti verticali porta degli affreschi rappresentanti scene di convivio. Sui triclini, adagiati su morbidi cuscini, uomini che si amano, eraste ed eromene, che bevono fino all'ubriachezza, la testa ciondolante all'indietro, che suonano la lira o i flauti doppi, o che giocano a kottabos. Tutto ciò che si può desiderare dalla vita bella, dagli amici, dagli amanti, dal cibo e dal bere. E poi, scene che girano tutt'attorno in un contesto realistico e arredato, i calici appoggiati su tavolini bassi accanto ai triclini, giovani servitori pronti ad attingere da un grosso cratere, un amico atleta che si attarda, al ritorno dall'allenamento, e che ultimo si aggiunge al convivio. Tutto ciò che forse si è avuto, e che si sta per abbandonare. L'ultimo sguardo alla vita che è stata, non come rimpianto, ma come volersene riempire gli occhi, per sempre. Per poterla salutare fino in fondo.


Ma è la lastra di copertura che ti sorprende, e che segna una cesura rispetto a quell'altra narrazione. Essa reca l'affresco che ritrae un giovane che si tuffa nell'ondulato mare, in una cornice di foglie d'acanto. Dietro di lui, un podio, quasi un trampolino, alto, in cima al quale forse è stato difficile arrivare. Forse le colonne d'Ercole, limite di tutto ciò che si sa. Tutt'attorno un'atmosfera rarefatta, stilizzata, sottolineata da fiabeschi alberi immobili nella luce abbagliante. E poi il tuffatore, nudo, con un'espressione serena, che testa in avanti compie il salto.
L'ultimo tuffo, con fiducia, nelll'ignoto. Di là dello specchio d'acqua, al di sotto del quale non si può vedere, nessuno sa cosa ci sia.


Qual è il più moderno?

Elmo apulo-corinzio, V. sec. a.C., Montescaglioso (MT)

Sant'Elmo, Mimmo Paladino, XX sec. d.C., Napoli.