10 settembre 2011

Un barista bambino

Qualche giorno fa sono stato nella casa dove ho abitato per molti anni con i miei genitori, per andare a preparare gli ultimi scatoloni di libri che porterò dove mi sono trasferito, insieme a qualche mobile. Centinaia e centinaia di libri: è stata un'autentica faticaccia, e molti, tre cartoni, li ho regalati a un signore che ha la bancarella a Corso ***, e che campa di libri usati e di occasione, venduti a uno o a due euro. Per altro, il giorno dopo ci sono anche passato davanti, ed è stato curioso vedere una piccola folla di curiosi sfogliare proprio i miei libri: un signore ne aveva quattro sotto il braccio (credo fossero Teresa Batista stanca di guerra, di Jorge Amado, un vecchio manualetto di Oceanografia, un numero speciale di Micromega e non ricordo manco cos'altro... insomma, cazzate). Nella casa ormai vuota, senza luce né gas, mio padre mi ha raggiunto per darmi una mano con i libri, e per fare le ultime pulizie. Durante quelle ore passate a lavorare insieme mi ha raccontato cose che non mi aveva mai detto prima, come certe storielle che risalgono a quando lui aveva 10 anni e faceva il barista, nel 1948. Cioè, lui non è che faceva proprio il barista e, ovviamente, a 10 anni non stava alla macchina dell'espresso. Papà era "banconista". Da quel che ho capito, preparava i vassoi con le cose da servire sopra, ed eventualmente li portava fuori dal bar se c'era da sbrigare la commissione.
Pare che il primo bar dove avesse lavorato, una volta uscito dal collegio di Portici, stesse a Corso ***, a Napoli: esiste ancora, e ora si chiama "'Na tazzulella 'e cafè" (guarda caso). Questo bar aveva, e mantiene, una caratteristica: per entrare bisogna salire un alto gradino che lo separa dal marciapiede. Papà dice che all'epoca passava spesso fuori dal bar un nano, estremamente piccolo, che portava dei pantaloni di alcune taglie più grandi, e con delle grosse tasche. Questa persona si affacciava al bar, senza salire il gradino, e chiedeva l'elemosina: la padrona del bar dava un paio di monetine a mio padre, e lui le lanciava facendole rotolare luungo il bar, verso l'ingresso. Secondo papà, le monetine, dopo avere viaggiato rasoterra, cascavano dal gradino per infilarsi diettamente nella tasca del nano, che intanto la teneva bella allargata. Vabbè, ho pensato io.
Da quel bar papà fu cacciato. Un giorno che doveva servire del seltz col sifone a un signore, l'erogatore gli sfuggì di mano, annacquando il viso e l'abito del cliente. La padrona non la prese bene, e dopo un cazziatone interminabile licenziò mio padre su due piedi. All'epoca non c'era l'articolo 18. E neanche Sacconi, se è per questo.
Papà cambiò padrona, anzi, padrone, nel senso che non cambiò il sesso ma le moltiplicò. Andò a lavorare dalle "signorine francesi", che avevano due bar, uno a via dei ***, di fronte al Palazzo ***, e l'altro a via ***, poco dopo piazza San ***. Non ho confessato a papà il mio sospetto che le signorine francesi (chissà come mai erano a Napoli) facessero un altro mestiere prima di aprire i due bar, appunto con i proventi del lavoro precedente. Forse ho solo malignato tra me e me, forse ci ho azzeccato. Comunque papà abitava in quella che all'epoca si chiamava Resina, e che solo successivamente ha preso il nome di Ercolano, per fare piacere ai turisti che altrimenti non sapevano bene dove scendere con la Circumvesuviana. Per tornare a casa, papà doveva prendere due tram, il 34 urbano, che dalla Riviera di Chiaia portava a piazza Municipio, e il 55 suburbano, che da piazza Municipio conduceva a Resina, a 11 km di distanza. Papà questo tragitto lo compiva alle 22, e regolarmente si addormentava nel tram. Il secondo tram, perchè papà faceva solo questo biglietto: le signorine, gli davano i soldi per entambi i mezzi, ma lui preferiva intascarsene una parte, e così viaggiava appeso sul respingente del numero 34, dove ovviamente non poteva addormentarsi.
(Apro un inciso. La storia dei ragazzini appesi ai mezzi pubblici a Napoli è vera. O meglio, lo è stata senz'altro. Se non altro perchè ricordo di averli visti anche io, appesi ai tram, prima del terremoto, avrò avuto cinque anni. Poi, nell'ottanta, col terremoto fermarono i tram, credo per via delle vibrazioni comunicate ai palazzi pericolanti. E non rimasero mezzi pubblici atti ad appendersi per molti anni. Quando ripartirono, la moda ultradecennale era ormai passata)
Papà mi ha detto che, appeso al 34, svitava le lampadine posteriori del tram, e le infilava nel giubbino. Una volta portate a casa, provava ad accenderle, ma ronzavano dando una luce molto fioca. Per via della tensione casalinga più bassa, mi h detto. Gli ho creduto. In ogni caso, il nostro amico bambino di 10 anni alle 22 si addormentava nel 55 diretto a Portici ed Ercolano. Dato che il piccolino era basso di statura, non sempre era visibile da dietro al sedile sul quale si addormentava, per cui succedeva che lo conducessero fino allo stazionamento, e che da lì lo riportassero dopo qualche ora a Napoli. Magari un paio di volte in una notte. Appunto, capitò una notte in cui un controllore lo salvò dal fare avanti e indietro fino al mattino, e alle 3  lo mise su un mezzo che passasse non dico vicino casa, ma almeno non troppo lontano.

Immaginate la nonna, sveglia, che aspettava ai 4 Orologi il piccolo lavoratore decenne.

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