28 dicembre 2012

L'eleganza del riccio


Mio fratello abita in un vecchio palazzo vicino alla stazione dei treni. Antica zona operaia, e di piccoli e numerosi negozi di quartiere. Ad un'estremità dell'area c'è la grande officina che venne difesa armi in pugno dai lavoratori, quando i nazisti tentarono di farla saltare in aria. Dall'altro lato, una piazzetta per sesso a venti euro alla botta, e poi il corso con il passeggio e i negozi d'abbigliamento della povera gente. Solo di recente la modernità si è insinuata nella strada di mio fratello usando come avamposto un piccolo supermercato, che ora occupa i locali di quello che fu un cinema, e un ristorante cinese. Un tempo, d'inverno, lungo la strada vendevano le caldarroste: mio padre, insieme a mio zio, se ne riempiva le tasche, e poi nelle tasche ci infilava le mani, perchè entrambi non avevano abbastanza soldi per comprare i guanti. Mentre fuori dei bassi le vecchine, per arrotondare, mettevano dei pentoloni nei quali cuocevano continuamente spaghetti che servivano senza condimento agli operai durante lo spacco, solo acqua sale e pasta.
Nell'androne del palazzo di mio fratello, mai ridipinto, cupo e fuligginoso, c'è la rampa che sale al pianerottolo di riposo, e poi quella che monta al piano superiore. Sotto quest'ultima, la portineria: una specie di sgabuzzino, con la porta a vetri nella cornice di legno, vecchie tendine e uno scuro per darsi un pò d'intimità. Dalla porta a vetri si intuisce, anche se a malapena, che la portineria in realtà è un cucinino, con i piccoli pensili in formica, il tavolo che occupa quasi tutto l'ambiente, il fornello alimentato da una bombola a gas, il calendario gentilmente offerto dal ristorante cinese appeso alla parete, la piattaia a vista sul lavello, il soffitto inclinato che segue il profilo della rampa. E dietro il vetro, la portinaia, piccola e grassa, dai grigi spessi capelli scorbuticamente piegati nelle più diverse direzioni.
Tutte le volte che entro la ritrovo eroicamente fissata nella medesima posizione: seduta al tavolo, ha fatto una stesa con una dozzina di carte napoletane, ingobbate e appesantite dal continuo sfregare con le dita, ed esegue un solitario sotto la luce giallognola del suo cucinino-portineria. Sono arrivato a chiedermi se sia io a rivivere sempre la stessa scena, come un film di un pò di tempo fa, oppure se lei passi davvero tutto il suo tempo così, e magari la stessa partita sia in corso da anni. Il portone ha la porticina di servizio, che è quella usata ordinariamente, per cui nell'entrare ci si deve un pò piegare e abbassare la testa, e mentre voi passate attraverso il piccolo vano già percepite in qualche modo che dietro la porta a vetri la sua attenzione si è destata, e potete quasi immaginare il grugnito che deve avere eseguito sollevando la testa per guardarvi. Ma, forse, sarà l'inchino che ogni volta che attraverso la porticina sono costretto a farle a predisporla bene nei miei confronti, sta di fatto che quando le indico, non le dico, che sto salendo da mio fratello, la sua espressione severa si ammorbidisce, e lei si limita ad accennare a malapena un sorriso che ha una sua ruvida dolcezza, muovendo impercettibilmente la testa per farmi sapere che ha capito, e che posso passare. E io mi sento un pò come in quel libro che parlava di un riccio.

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